PELLET: prezzo basso non significa qualità

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(Segue da ACQUISTARE LEGNA DA ARDERE: I CONSIGLI DELL’ESPERTO)

Nell’ultimo decennio lo sviluppo e la diffusione nel nostro Paese delle stufe a pellet ha avuto una crescita esponenziale.

Tecnologia per riscaldamento di ottima concezione, da noi è giunta, come prassi, con quei trent’anni di ritardo rispetto ai paesi nordici.

Al solito, il nostro mercato si è distinto in negativo, sia sul piano tecnologico, sia su quello della produzione del combustibile: il pellet.

Oggi parliamo pure del pellet in se. Di stufe ne parleremo specificatamente più avanti.

Intanto, quale pellet è più indicato per una buona resa?
Quello di “faggio” o quello di abete?

Risposta immediata: quello di abete, possibilmente di produzione austro- tedesca, certificata D.I.N. Plus.

C’è chi crede che bruciare essenza di abete sporchi la stufa.

Ciò potrebbe valere per una cucina economica che di per se è una tecnologia di riscaldamento a basso rendimento: le temperature che si raggiungono nel braciere sono relativamente contenute, pertanto le resine potrebbero non avere una combustione completa, causando, conseguentemente, ostruzioni alla canna fumaria con annessi e connessi.

Le stufe a pellet, invece, lavorano a temperature tali che riescono ad incrementare il rendimento del legno (il pellet, ricordo, è fatto di segatura) anche per mezzo della corretta combustione della resina.
In questo caso, le essenze di conifera finiscono per lavorare meglio, sviluppando temperature tali che aiutano anche il mantenimento della pulizia di vetro e braciere.

Il pellet di “faggio”, chiedete?

Avete notato che lo scrivo sempre tra virgolette?
Se fosse effettivamente di faggio, si potrebbe dire che renderebbe anche meglio dell’abete.
Unico problema, nonostante le scritte che fanno bella mostra di se sui sacchetti, nel 95% dei casi non si tratta di faggio puro.

Quando va bene, avete a che fare con un miscuglio di più essenze, di cui il “nostro” costituisce una parte a percentuale variabile.
In questo caso, i vostri bricchetti pressati avranno una buona resa come calore; sporcheranno abbastanza, ma non troppo; costeranno meno dei prodotti teutonici e la resa sarà proporzionale a quest’ultimo dato: inferiore.

Quando va male, il sedicente pellet di “faggio” cova nel suo ventre terra o addirittura plastiche– il perché ve lo dirò più avanti-.
In entrambi i casi si avrà a che fare con un bel disastro: formazione di grumi nel braciere e annerimento perpetuo del vetro.
Non parliamo degli scarichi fumari: gli effetti nefasti ve li potete immaginare, se non li avete già provati.

Oh, badate, non è sempre così, ma la statistica, purtroppo, pende in questa direzione.

Particolare: austriaci e tedeschi non producono pellet in faggio ma solo in abete.

L’abete è sempre sicuro?
Se di produzione nordica si, altrimenti può incorrere negli stessi rischi del pellet di “faggio”, quello “scuro”, per intenderci. Anche qui, vi racconterò prima o poi qualche bel retroscena.

Tra quest’ultimo e quello “chiaro” (quindi di abete) di produzione germanica, naturalmente, c’è una bella differenza di costo: il secondo può arrivare a vantare anche un aggravio di €1,00 per sacco di kg 15.

Attualmente, tanto per dire, il pellet di “faggio” è valutabile tra gli € 3,80 e gli € 4,00 per sacco di kg 15, mentre quello di abete, targato Vienna, si aggira tra gli € 4,40 e gli € 4,90.

Ad ogni buon conto, normalmente, il rapporto prezzo- resa pende favorevolmente dalla parte di quest’ultimo.

Consiglio: prima di acquistare un intero bancale di pellet, chiedete al fornitore qualche sacco di prova e, poi, sceglietelo.
Così non dovreste sbagliare.

Ora, penso che vi stiate chiedendo come riconoscere la bontà del prodotto sulla base di certificazioni e provenienza. La vostra curiosità sarà accontentata, ma la prossima puntata.

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EmmeU

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Redazione

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